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L' egoista - 1960-61

autore: Carlo Bertolazzi
regia: Giorgio Strehler
scene: Luciano Damiani
costumi: Luciano Damiani
    


Appunti di regia dell\'Egoista di Bertolazzi

Appunti dal programma di sala dello spettacolo, ripresi sul Giornale del Piccolo Teatro (novembre 1960) e sulla rivista Il Dramma (dicembre 1960). Negli anni Settanta sono stati inseriti (con qualche variante) anche nel volume di Giorgio Strehler, Per un teatro umano edito da Feltrinelli.

Appunti su L’Egoista di Bertolazzi

Dobbiamo a Eugenio Ferdinando Palmieri  se non la scoperta, certamente la prima e più autorevole esortazione a rivolgere il nostro interesse ad una parte del teatro italiano lasciata spesso ai margini da molta critica ufficiale: il teatro provinciale, dialettale, il cosiddetto “teatro minore” che purtuttavia costituisce un filone, talvolta modesto ma continuativo, della drammaturgia nazionale. Il nostro affetto per Bertolazzi – e diciamo proprio affetto, cioè amorevole disponibilità del capire ma anche del criticare e del limitare, non amore esclusivo – è uno dei frutti di questa rilettura di tanti autori e testi “abbandonati” dalla corsa frenetica del teatro contemporaneo. Non a caso questa ricerca ha finito poi per iscriversi, naturalmente, in una sfera di interessi più vasti; problemi di linguaggio, lingua e dialetto, proposte per stabilire il profilo di un teatro “nazionale-popolare”, possibilità di una tradizione realistica nel teatro italiano, e così via. Fatti questi che appaiono al giorno d’oggi urgenti e riconoscibili da tutti, tanto da essere divenuti moda o schema di comodo per un discorso teatrale genericamente “moderno”.

 

Da parte nostra vorremmo solo sottolineare che spesso la tendenza antichissima della scena italiana a divorare i fatti drammatici più varii invece che ad assimilarli, a cercare in ogni espressione scenica il suo valore di novità esterna, di fenomeno cioè sconvolgente, irripetibile o anche il suo valore di manifesto estetico, di proclamazione poetica che vuole escludere infinti altri valori, ha impedito e continua ad impedire il naturale svolgersi di una conseguente ricerca drammaturgica articolata nel tempo attraverso un discorso – vario perché dialettico – ma coerente e soprattutto esauriente. Così, ad esempio, potrei ricordare l’abbandono di un lavoro che fu da noi intrapreso – mi pare per primi con efficienti ragioni estetiche – sul teatro dialettale milanese, prima con El nost Milan di Bertolazzi e poi con I  vincitori (La Guèra) dell’Albini-Bettini: lavoro appunto sospeso in limiti assai ristretti, forse non tanto per mancanza di una corrispondenza del pubblico a proposte inconsuete per ragioni storiche – abitudini e mode – quanto per una certa distrazione degli interessi critici, una mancanza di temi dialettici che noi avevamo sperato di suscitare.

 

Il ritorno, comunque, di Bertolazzi con il suo Egoista sulla nostra scena non vuol essere, oggi, una prova di ostinazione e pedanteria nei riguardi di un autore drammatico. Sebbene non ci sembri inutile sottolineare che alcuni motivi di una libera scelta, da giudicarsi quindi come unica, all’atto dello spettacolo, si riferiscono a una costante ideologica ed estetica, rintracciabile nel corso di tutta la nostra avventura, ormai più che decennale. 

 

L’idea di rappresentare l’Egoista è indubbiamente di antica data. Ed in questo senso potrà anche apparire un poco in ritardo su certe esperienze del nostro teatro, in questi ultimi anni. Idealmente la si potrebbe collocare dopo la realizzazione di Lulù e assai prima di quella de El nost Milan. Essa nacque alla lettura di una edizione del testo, preparata ancora da Palmieri, nel 1944. Si trattava di una edizione letteraria, non drammaturgica, corredata da uno studio lucidissimo sull’autore e sul dramma in particolare, al quale ancora oggi riconosciamo un valore di rivelazione e di indicazione critica inequivocabile.

 

A conclusione del suo scritto introduttivo Palmieri scrive: “Cosa c’è di superato dunque, ne l’Egoista? Vorrei dire al nostro caro amico che proprio ripensando a quella isteria del nuovo di cui abbiamo parlato (quel nuovo visto tutto dal di fuori, che tanto frusto poi appare, a ogni cadere delle stagioni!) forse molto de l’Egoista potrà anche sembrare superato.

 

 

 

E’ un timore  legittimo anche considerando poi che non è certo  difficile rintracciare i limiti estetici delle pagine di Bertolazzi: facilità che confina con il semplicismo, scorrevolezza che può diventare sciatteria o distrazione, situazioni che possono confinare con lo schematismo. Pure, ciò che importa è domandarsi se i valori sostanziali  del testo drammatico, nella sua totalità giustifichino o no la fatica di una riproposta al pubblico contemporaneo. Sotto questo profilo mi pare che l’”Egoista” imponga le sue ragioni senza dubbi di sorta.

 

C’è innanzitutto l’invenzione di un personaggio, il protagonista. Potrà sembrare eccessivo definirla unica? Pure non riesco a trovare dei paralleli a questo Franco Marteno, egoista assoluto. Nella storia gloriosa dei “caratteri” credo che Franco Marteno sia solo. In infinitamente varie ed anche infinitamente più alte misure poetiche, esistono gli avari, i misantropi, i rusteghi, i burberi, i brontoloni e tanti tanti altri archetipi umani.

 

Ma questo egoista ‘puro’, no. Non è questa cosa di poco conto. E poi: la straordinaria coerenza ed originalità dello svolgersi dell’azione. Quattro atti, quattro tempi lontani, quattro età giocate su un unico tema: rigido tema con variazioni o meglio, senza variazioni; piuttosto, tema con risvolti, che sempre si conclude su se stesso. Un disegno questo, che potrebbe esaurirsi a priori nella monotonia o nella meccanicità di una trovata iniziale presto delusa se non seguisse invece una sua semplice ma non ingenua logica interiore, e non diventasse intuizione d’arte, chiarezza quasi di teorema poetico.

 

C’è infatti in questo Egoista di Bertolazzi, attraverso – perché no?- incertezze dei moduli del naturalismo, dello studio clinico del carattere e manchevolezze di linguaggio e di svolgimento, una specie di esemplificazione drammatica che potrebbe avvicinarsi al teatro didattico. Esemplificazione che vuole, appunto, toccare momenti tipici e situazioni tipiche.

 

Già in questo senso, la scelta inconsueta dell’arco di tempo in cui si svolge l’azione – quarant’anni, una intera epoca storica – e il cogliere il protagonista in quattro età fondamentali dell’uomo: giovinezza, maturità, declino, vecchiaia, possono da sole confermare un fondamentale atteggiamento dell’autore.

 

Ma non solo. Esiste anche la scelta del tipo di evoluzione egoistica del personaggio nel corso di ciascun atto del dramma. Primo atto: gioventù, egoismo sensorio (la piccola tirannia domestica) che culmina con un matrimonio d’interesse tanto crudele ed improvviso, quanto gratuito, fine a se stesso. Secondo atto: maturità, egoismo sociale, nel cerchio dei rapporti borghesi (l’amante, la moglie, il fastidio domestico, i figli) che si conclude con un atto di egoismo quasi metafisico, la paura del male, prima ancora di quello della morte. Terzo atto: decadenza, egoismo sentimentale (tirannia  degli amori famigliari, i figli cresciuti e posseduti come oggetto esclusivo) che crea il suo capolavoro nella sua scena finale, cosciente ed incosciente recitazione di una sofferenza quasi nuova, scena in cui l’egoista convince se stesso e la figlia a non abbandonarlo per un altro.

 

Siamo qui, assai oltre i  limiti del teatro del primo novecento. E quel tono torbido in cui i sentimenti guizzano imprecisi nel cuore di Franco Martino, appartiene – mi pare – già tutto intiero ad una nostra contemporaneità tanto più sconvolgente quanto scoperta nella modestia di un Bertolazzi.

 

Infine il quarto atto: vecchiaia, una somma gelida dei temi precedenti, una specie di inferno fatto di pochi gesti e parole, ritmato sulla presenza della morte, in una camera riscaldata di contro ad un mondo coperto di neve.

 

E qui la commedia finisce per raggiungere dimensioni espressive per le quali si possono forse richiamare alcuni alti nomi della drammaturgia classica. Per questo verso, Franco Marteno si avvicina a certi grandi personaggi negativi, espressi con diversissimi toni e cadenze e costumi, dal teatro russo.

 

Tra questi, per fare un esempio che ci appartiene – il Platonov rapace ed infantile “egoista amoroso” di Cecov.

 

Alcune parole, ora, per concludere questo appunto ai margini del programma sul nostro lavoro drammaturgico.

 

La nostra edizione de L’Egoista segue fedelmente il testo originale di Carlo Bertolazzi, quale è stato definito dall’autore stesso dopo alcuni ritocchi non marginali, nati da pratiche esperienze di rappresentazione. Sono stati fatti alcuni naturali tagli teatrali – assai pochi per la verità – poiché il teatro si presenta fin troppo scarno. Qualche modificazione scenica è avvenuta nella parte iniziale del primo atto con una diversa disposizione delle battute del testo originale.

 

Più volte, qua e là, abbiamo corretto – speriamo a ragion veduta e con infinito rispetto – la cadenza delle battute. Soprattutto per ragioni di dizione scenica.

 

Forse in qualche punto abbiamo agevolato la scorrevolezza recitativa del testo, laddove Eugenio Ferdinando Calmieri nella sua edizione de L’Egoista, ci aveva sottolineato la secchezza del linguaggio. Ma crediamo che ugualmente lo stile essenziale, persino sgraziato, di Bertolazzi, sia rimasto intatto.

 

Infine abbiamo spostato l’azione del L’Egoista nel tempo. Il testo di Bertolazzi inizia nell’anno 1864 e si conclude nell’anno 1901, data della sua rappresentazione. Lasciando immutati gli intervalli di tempo intercorrenti fra atto ed atto e quindi le età del protagonista e degli altri personaggi, abbiamo iniziato l’azione dove Bertolazzi la conclude.

 

Non si è trattato qui di un semplicistico tentativo di storicizzazione. A noi è sembrato inequivocabile il fatto che per Bertolazzi, l’azione iniziatasi in un lontano tempo storico dovesse concludersi nella sua contemporaneità. Dovesse cioè, nel suo ultimo atto, apparire  come un fatto presente e non idealizzato da un’epoca ormai remota allo spettatore.

 

Lo si voglia o no riconoscere, Bertolazzi non ha lasciato vivere il suo egoista in un mondo astratto, inconsistente. Non ha certo sottolineato l’aneddoto della singola epoca, il colore, della moda ma purtuttavia il mondo di Franco Marteno è chiaramente situato per Bertolazzi nella geografia e di luogo e di classe.

 

E’ l’egoismo tipico di Marteno che si rifiuta alla storia ad impedire l’irrompere concreto della storia nel suo quadro e quindi a costringere giustamente Bertolazzi a lasciare la storia fuori dalla porta, fuori dalle finestre.

 

Ma la storia fluisce ugualmente, il tempo fluisce ben oltre l’egoismo del protagonista: dal costume, al mobile che muta, alla notizia del giornale lasciato sul tavolo.

 

Esso è la presenza appena indicata, il controcanto appena accennato ma presente come un pedale armonico a tutta l’azione drammatica e ci sarebbe sembrato rinnegare un preciso disegno dell’autore confinando il suo Egoista in un limbo stilizzato, ipotetico ed incredibile proprio perché dimenticato dal pubblico nella sua presente realtà.

 

Così anche per questa edizione contemporanea, la storia de L’ Egoista si apre in un tempo ormai quasi favoloso per noi all’inizio del secolo e si chiude alle soglie del 1940. Per indicarci la sua permanente verità e possibilità concreta di esistere ancora – come esiste – in mezzo a noi.

 

Sui criteri critici (rapporti psicologici, ritmi, colori ecc) che hanno informato la nostra interpretazione, non abbiamo nulla da sottolineare lasciando come sempre intera la responsabilità allo spettacolo di dire, se potrà e saprà farlo, il nostro faticoso ma prima di tutto, il nostro amorevole cammino di conoscenza.

 

 

 

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