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La tempesta - 1983-84

autore: William Shakespeare
traduzione: Agostino Lombardo
regia: Giorgio Strehler
scene: Luciano Damiani
costumi: Luciano Damiani
musiche: Fiorenzo Carpi
    


Appunti di regia della Tempesta - edizione 1983

Riflessioni sull'edizione parigina della Tempesta che inaugurò il Théatre de l'Europe

È finito il lavoro della «Tempesta»    

     

Quale testo, quale autore, quale spettacolo, poteva «naturalmente», più di ogni altro, avere la ragione di inaugurare un «Théâtre de 1’Europe» se non William Shakespeare, The Tempest, recitata dal Piccolo Teatro di Milano, teatro italiano, certo, ma che sin dalla sua nascita ha mostrato una vocazione europea, senza equivoci, con l’impegno di mostrare il volto umano del teatro e la sua perpetua missione di legare gli uomini agli uomini nel cuore inquieto del nostro continente? Ed è per questo diventato quasi ineluttabile che io abbia deciso di far rivivere La Tempesta di Shakespeare, già allestita nel corso della stagione 1978/79. Ho voluto fare di questa opera quasi una nuova edizione, anche se questa Tempesta riprende innumerevoli modulazioni dell’altra edizione. Molti attori sono cambiati, alcuni vuoti sono stati riempiti, almeno lo spero, alcune esperienze e riflessioni messe a frutto.

Oggi possiamo dire che questa edizione della Tempesta è da questo momento l’edizione dell’«Odéon», quella del Théâtre de l’Europe, di Parigi, 1983. Mi sembra anche in modo sempre più chiaro che si esemplifichi, nella Tempesta di Shakespeare, il tema che noi abbiamo scelto per questa nostra prima stagione del Teatro d’Europa: Teatro-Illusione-Potere. Personalmente credo che la dimensione della Tempesta si ritroverà sempre in qualche modo legata alla drammaturgia che metteremo in scena al Teatro d’Europa o in qualsiasi altro teatro nei prossimi anni, perché La Tempesta di Shakespeare è il cuore, il nodo imperituro della teatralità europea.

È il prologo straziante, lacerante e magnifico della nostra storia di uomini e di teatro.

«Occorre dunque un grande coraggio, un disperato coraggio per tentare di far rivivere La Tempesta, oggi. Ma forse è di gesti come questi che oggi si ha bisogno…».

Così scrivevo all’inizio delle prove della Tempesta. Ora che abbiamo tentato di farla rivivere, lo confermo. Lo confermo soprattutto nel loro senso di una fatica disperata e di una disperata fiducia. Una fiducia sempre più labile ma pur sempre ancora fiducia che il teatro possa oggi ridare in qualche modo, ad una collettività che la sta quasi perdendo, la ragione dell’esistenza e della convivenza umana. La Tempesta è nata in un momento che a me sembrava avesse tutti i connotati dell’Apocalisse. Era la tragica stagione dell’assassinio di Aldo Moro. Ma un’Apocalisse degradata in cui tutto si confondeva, tutto si annullava: rivolta, calcolato assassinio, rituale politico, dentro una spaventosa indifferenza. La storia non è stata fuori dal luogo dove costruivamo il nostro spettacolo. La storia arrivava e arriva giorno dopo giorno puntualmente dentro i muri chiusi di un teatro, a Milano come a Parigi, su un palcoscenico-mondo dove una piccola collettività sta lavorando sulle parole di un grande poeta per inventare sogni e la realtà dei sogni e delle metafore. Non sogni gratuiti.

Immagini, suoni, significati che proprio «mettendosi contro» un certo tipo di storia intorno, si rivelano, oggi come allora, un gesto attivo di rifiuto del nulla, un tentativo violento di opporsi a questo dissolvimento della ragione. Tanto più che ciò che si svolge sulla scena aveva ed ha la sua ineluttabile carica di disperazione. La Tempesta è «un’opera disperata», ma nello stesso tempo attiva, che domanda non il gesto suicida della rinuncia ad essere uomini, ma la domanda di essere migliori.

È l’estremo grido del fallimento di un progetto umano e meraviglioso, e non riuscito.

È l’estrema domanda sul destino dell’uomo e della storia, delle sue contraddizioni e della sua poesia, e quindi del teatro. Teatro come parafrasi più vicina d’ogni altra alla vita. Ed essa lascia dentro di noi – ora che siamo alle ultime battute – non un sapore amaro, è troppo grande per questo, ma un senso quieto, di profondo dolore, in una luce di tramonto, quando noi vorremmo che tutto nascesse nella luce di un primo giorno della creazione, una profonda pena per questo destino umano che così difficilmente cerca la possibilità di svolgersi per l’uomo e non contro l’uomo. Eppure, nello stesso tempo, La Tempesta che si chiude per noi l’ultima volta, proprio nell’attimo della constatazione dello scacco, ci consegna un’altrettanto quieta e profonda consapevolezza che soltanto la conquista dell’umano – che non è semplicemente pietà, giustizia o tenerezza, ma accettazione della realtà umana, così come è, oltre la dolce utopia, oltre l’iridescente schermo dei grandi progetti, la dura, cattiva realtà – soltanto la realtà conquistata e accettata, può aiutare veramente l’uomo a prendere il mondo nelle sue mani, non per distruggerlo o avvilirlo, come sembra stia facendo ad ogni tornante della sua storia.

La Tempesta ci appare ora sempre di più, oltre ogni sua implicazione – e le implicazioni sono tutte vastissime: politica, storia, arte, teatro – come un cammino di conoscenza, del suo protagonista Prospero verso la «conquista del reale» e quindi un faticoso cammino di conoscenza per noi interpreti e per noi spettatori.

Ma oltre a ciò, appare anche una grande parabola del teatro. Assieme alle domande ultime sulla stessa vita e sulla storia, sulla conoscenza che Shakespeare nella Tempesta ci pone, ci sono le domande sul destino della teatralità. Cioè le domande su come e perché noi facciamo teatro – proprio noi, gente di palcoscenico – e su cosa il teatro dovrebbe o potrebbe essere. Così, investiti anche in prima persona come lavoro di teatro, oltre che come lavoro di vivere, noi siamo arrivati a concludere uno spettacolo che è più di uno spettacolo, poiché ad esso siamo stati quasi forzati a dare tutto di noi. Perché in queste quattro ore abbiamo dovuto, in qualche modo, riassumere tutta la nostra storia passata, tutto il nostro presente e quel tanto di futuro che riusciamo a scorgere nel buio davanti a noi.

Come sempre, ma più di sempre, consegnamo al pubblico uno spettacolo che nei suoi limiti, nella sua fatale imperfezione, è stato una ricerca veramente nel profondo, è stato un incessante esperimento anche se ha – come ogni esperimento reale deve avere – una sua forma compiuta, un suo risultato visibile e verificabile. Ma il nostro è uno spettacolo che apre più domande rispetto alle risposte che può dare. Questa meditazione teatrale che coinvolge l’uomo intero in una totalità che ci fa attoniti ed impotenti, non ci ha lasciati indenni.

Ci ha lacerati. Resta da vedere quanto il terribile brivido di quest’opera di poesia – per me una delle più alte che il genio umano abbia saputo produrre – troverà in chi vede e ascolta la sua risonanza.

Quanto di questa abbia una eco nel nostro spettacolo della Tempesta. Quanto si sia riusciti a fare perché con La Tempesta qualcosa cambi, anche se di poco, nel mondo, in quanto ha cambiato gli uomini che hanno vissuto La Tempesta sul palcoscenico e in platea.

Abbiamo sempre cercato – senza illusioni ma con qualche certezza – di fare un teatro che voleva modificare il mondo. Mai come in questa Tempesta abbiamo sentito la fallibile, disperante, trionfale grandezza e responsabilità del nostro mestiere.

     

     


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