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La tempesta - 1977-78

autore: William Shakespeare
traduzione: Agostino Lombardo
regia: Giorgio Strehler
scene: Luciano Damiani
costumi: Luciano Damiani
musiche: Fiorenzo Carpi
    


Appunti di regia della Tempesta del 1978 (seconda edizione)

Riflessioni sul lavoro di interpretazione e di regia della Tempesta allestita nella stagione 1977-1978 in relazione anche alla prima edizione dello spettacolo del 1948

Appunti di regia della Tempesta seconda edizione

stagione 1977-1978

 

È iniziato il lavoro della «Tempesta»    

     

Da quando? Forse dal 1948, quando, per la prima volta, ho affrontato La Tempesta di William Shakespeare. In mezzo, quasi duecento spettacoli, trent’anni di vita e di teatro. Da allora, dopo la rappresentazione nel giardino di Boboli in qualche notte incantata, con giochi d’acqua e fuochi d’artificio e con la divina incoscienza della giovinezza, molti altri testi di Shakespeare sono venuti alla ribalta in un lungo itinerario che è approdato al Re Lear. Ed è dal Lear che, anni dopo, parte La Tempesta. Da certe conquiste o comprensioni nate dal lavoro compiuto su un abissale capolavoro che è innanzitutto un cammino di conoscenza, un itinerario nel buio per arrivare ad una particella di luce. Umana e poetica.

Ma La Tempesta è stata segretamente e costantemente presente in tutta questa indagine su Shakespeare e quindi sull’uomo e la sua storia. Tutt’al più è venuto il momento di «riprendere» oggi di nuovo in mano il testo e di tentare di darlo al pubblico con uno spettacolo che mi sembra, fin dall’inizio, impossibile.

Perché dunque rappresentare La Tempesta? Risponderei: perché bisogna sfidare l’impossibile, perché è il nostro dovere di uomini di teatro (e, a lampi, di artisti) ad un certo punto della nostra vita e della nostra conoscenza – affrontare direttamente l’impossibile, anche a costo di uscirne spezzati – ma anche per strappare un altro pugno di verità del mondo. Una scelta, a teatro, del resto, non è mai pura. Nasce sempre da circostanze più o meno favorevoli, da sensazioni di opportunità e di necessità. Ed è, nonostante tutto, una scelta fatta da altri che un «direttore di teatro» poi fa sua. Davanti alla Tempesta non so dunque se questa scelta riassuma un bisogno in qualche modo «oscuramente collettivo», o se invece non sia più che altre volte (quasi un’eccezione) un bisogno profondo della mia teatralità, giunta alla sua ultima svolta. Non so se l’estremo messaggio umano della Tempesta così disperatamente solo possa rappresentare qualche cosa di necessario nella terribile distrazione dell’oggi. Non so se questa inquieta luce di speranza-non speranza, questa interrogazione estrema sul destino dell’uomo possa scuotere la fibra di quel «riassunto del mondo» che è sempre il pubblico. Ma parve così anche per il Re Lear e poi ci si accorse che il collettivo umano – quel collettivo tempestato dai mass-media, dalla confusione delle lingue – voleva invece raccogliersi intorno a grandi parole scritte da un grande uomo e poeta che a distanza di secoli poteva ancora parlare «direttamente» alla nostra contemporaneità. E che sapeva raccogliersi, insieme, in un silenzio attonito e comprensivo. Come si spiegherebbe altrimenti il grande «incontro pubblico» che il Re Lear che abbiamo rappresentato ha trovato nelle platee del mondo, in questi anni, in lingue diverse?

Non certo il magico di una regia o il fascino di un attore. Mai, ricordiamolo, mai sono queste le cose che determinano a teatro l’incontro lungo, continuo, caldo e travolto della gente con la realtà di uno spettacolo di teatro. Esso nasce da qualcosa che sta più in là dei mezzi del teatro, un qualcosa che il teatro, però, ha il dovere di cercare e di trasmettere il più limpidamente possibile, il più onestamente possibile. Così nasce questa edizione della Tempesta, da molto tempo come sottofondo segreto di un lavoro fatto su Shakespeare; da meno tempo dopo l’esperienza sconvolgente del Lear; da ancora meno tempo, circa un anno dal nuovo studio intrapreso sul testo. Proprio lo studio del testo, delle parole di un poeta messe insieme, testo, scena, semantica, interi e significanti.

Quel testo che «giovani» troppo ignoranti, arroganti, cinici e di conseguenza «sfatti» per essere la «gioventù» – sostenuti da «vecchi» impegnati a recitare il ruolo di una presunta giovinezza - considerano il nulla – o un pretesto per qualche gioco infame, all’etichetta della dissacrazione o della smitizzazione – quel testo che noi consideriamo tutto da capire e trasmettere. Il testo come matrice unica per il teatro – che indica, spinge, propone ogni soluzione di suono e gesto perché la racchiude in sé, perché le appartiene.

La realtà di questa lettura – la lettura di questa realtà – ci stanno costando ore di grande sforzo intellettuale, ci chiedono una presenza profonda che spesso non possiamo dare, perché il teatro che si fa ogni giorno chiede anch’esso la sua parte. La Tempesta è nata direttamente durante una stagione molto complessa, quella del 1976-77, con molti spettacoli in Italia e all’estero, non certo nel silenzio e nel raccoglimento che tanti di noi, io per primo, si augurerebbero. Il pubblico dovrebbe avvertire qualcosa di questo travaglio segreto – che, forse, non dovrebbe restare tale – questo travaglio sta dietro ad ogni vera rappresentazione di teatro. Sono ore rubate quasi all’urgenza della vita di un teatro che si fa sera per sera, all’orribile macchina per fare teatro, come l’ha chiamata Jacques Copeau, alla quale il teatro non sa sottrarsi perché forse è parte del suo destino.

Per questo lavoro – oltre a quel tanto di meditazione solitaria che occorre – abbiamo scelto la soluzione di un colloquio fra noi – Battistoni, Carpi, D’Amato, Damiani, Gaipa, Lombardo, Lunari, Kott, Pagliaro e io. Agostino Lombardo cura la traduzione della Tempesta. Kott e Lombardo come due poli di un atteggiamento dialettico per una indagine sulla parola e sul senso – e, in mezzo, le nostre conquiste piccole e grandi, le nostre prime intuizioni sceniche. Guardo sul mio tavolo, mentre scrivo questa nota, le cartelle di «materiale di lavoro» già accumulate. Sono più di 400 pagine colme di note, resoconti di colloqui, dialoghi stenografati. Guardo su un tavolo l’accumulo di libri, con i segni, le strisce di carta bianca che ne escono, ad indicare un punto di riferimento, un’immagine che ci ha colpito. Altri verranno. Altre pagine andranno ad aggiungersi a quelle già scritte. Dietro ad un’interpretazione di un’opera di teatro – quando essa si realizza con un autentico e amorevole sentimento scientifico – ci sono certo molti libri scritti dagli interpreti e mai pubblicati, molti studi letterari, storici o altro, che non vedranno la luce se non quella incandescente della ribalta (vera o fittizia che sia) del teatro. E così deve essere. Dunque, stiamo scrivendo questo libro sulla Tempesta di Shakespeare. E continueremo a scriverlo fino al momento della rappresentazione, come sempre con disperata tenacia e con l’incessante volontà di aggiungere una sillaba in più al vocabolario del mondo. Ma qui nel cuore della Tempesta l’uomo di teatro si trova davanti al teatro nella sua ultima essenza. Tocca o crede di toccare gli estremi limiti del teatro. Nella Tempesta c’è l’estrema stanchezza e vanità del teatro e al tempo stesso l’estrema importanza troppo delusa della vita. C’è la glorificazione del teatro, delusa e trionfante, del teatro come mezzo altissimo e insostenibile di conoscenza e di storia, ma, entro certi limiti, inutile, terribilmente inutile o insufficiente, per il muoversi inconcepibile della vita che sempre lo supera.

Occorre un grande coraggio, un disperato coraggio, per fare la Tempesta di William Shakespeare oggi. Ma forse è di gesti come questi che proprio oggi si ha bisogno.

     

     

     


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