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Re Lear - 1972-73

autore: William Shakespeare
traduzione: Angelo Dallagiacoma, Luigi Lunari
regia: Giorgio Strehler
scene: Ezio Frigerio
costumi: Ezio Frigerio
musiche: Fiorenzo Carpi
    


Appunti di regia del Re Lear

Appunti preparatori per l'allestimento dello spettacolo del Re Lear andato in scena nel 1972 e ripreso nel 1973, 1974, 1977, e 1978

Appunti per il «Re Lear» stagione 1972-1973    

     

Non trascurare nel Lear un dato di fatto: la «favola» di Leir-Lear per Holinshed è datata nel 3105 dalla nascita del mondo (55 anni prima della fondazione di Roma).

In Israele regnavano Guida e Geroboamo.

La tragedia è stata mantenuta da Shakespeare in una lontananza alle soglie del tempo, non fuori tempo, ma non storicizzata.

In tale modo si ottiene una «astrazione» delle situazioni senza però perdere del tutto una «connotazione storica» possibile: cioè storia di uomini in un certo tempo.

Solo che il tempo è remotissimo.

La più remota tragedia di Shakespeare; notare che non a caso si parla qui di Dei e non di Dio.

Non portarla nel vuoto.

Non farla diventare un pretesto storico.

È certo che la prima scena ha come nucleo un love-test di fama popolare: la figlia o le figlie che dicono o non dicono di amare il padre come il pane e il sale.

Evidentemente dunque: un rituale a senso unico, con soluzione stabilita a priori. Esso serve a «dare una forma» ad un atto pubblico, con la «rappresentazione» della ubbidienza dei figli ai padri e quindi dei giovani ai vecchi. Come tutti i rituali essi non possono essere né mutati né tantomeno capovolti. Essi seguono una loro logica simbolica di gesti e parole.

Il fatto che insistessi sul carattere di prologo della prima scena, nel suo nucleo, di «cosa data a priori», ha dunque un suo fondamento preciso. Non è una «recita» per divertire Lear, non è una invenzione di Lear o una sua bizzarria. È un «fatto» che si deve fare e che sanziona praticamente la sua abdicazione.

Lo sconvolgimento di Lear è quello dell’officiante che vede il blasfemo, che si avvicina all’ostia e la sputa per terra. È incredulità ed è orrore e smarrimento. E altro.

Le reazioni sono a senso unico, sebbene di tipo diverso secondo i diversi caratteri. Quello di Lear reagisce come reagirebbero tutti, nel fondo, ma con il suo particolare modo: ira, maledizione, grida, collera, ecc. ecc.

Cordelia insomma spezza tutto un giro rito-costruzione storica e «senza avere avvertito», di colpo, inattesa!

È chiaro che in questa versione la posizione di Kent diventa ancora più difficile. Kent si oppone alla violenza del re, certo, ma deve sapere che il re «ha ragione».

Forse non si aspetta nemmeno lui che Cordelia spezzi il nodo, ma non si aspetta nemmeno che il re «prenda così sul serio» l’atto di Cordelia ... Però… La storia potrebbe essere raccontata così: il vecchio Re Lear, deciso ad abdicare e delegare il potere alle sue figlie e per esse ai loro mariti e dividere fra di esse il suo regno, decide la spartizione e la solenne cerimonia che sanzionerà l’avvenimento. A questo scopo viene usato il rituale del «love-test», pubblicamente.

Egli spiega l’antefatto della spartizione e poi pone le domande rituali alle tre figlie. Le prime due rispondono come devono, con atto di sottomissione completa. La terza, la più giovane, si ribella alla «forma» rituale, che le appare vuota ed inutile. Il vecchio re, di fronte allo scandalo e di fronte al grave attentato alla sua regalità, al sistema stesso su cui poggia il suo potere e lo stato, disereda la figlia e la dà in sposa al re di Francia che se la porta via, all’estero.

     

Cordelia

     

Cordelia da tempo ha capito di quale stampo sono fatte le sorelle ed i rispettivi mariti, ha capito che la decisione del re è errata, che i tempi sono ormai maturi per un’altra forma di vita e di rapporti e che grave pericolo correrà il padre stesso quando realizzasse il suo desiderio.

La figlia più giovane sceglie al tempo stesso il momento più giusto e quello più errato per significare al padre il suo pensiero. Ma ella non è una politica, è una «sentimentale» con un forte carattere, propenso all’introversione e, con ogni probabilità, al tempo stesso irriflessiva e testarda come il padre. In Cordelia esistono alcune qualità e difetti del padre e sono proprio questi che in un dialogo che spezza la calma del rituale del «love-test» rende insanabile il contrasto tra i due.

Basterebbe un poco più di umiltà da parte di Cordelia, un poco più di flessibilità politica, un poco più di capacità di spiegare a parole i sentimenti più profondi per chiarire, forse, l’equivoco. Ma i due, troppo simili in fondo, si allontanano sempre più.

Il re è convinto che la mancanza di Cordelia alle formule del «love-test» nasconda una reale mancanza di amore e nel tempo stesso sia la manifestazione della più aperta ribellione ai suoi voleri, e insieme, ai voleri della legge che è come è sempre stata.

L’atteggiamento di Cordelia è ribelle, pericoloso per l’unità politica del suo disegno. Deve andarsene. E la scaccia senza terre né dote. Se la prenda il primo che vuole. Nel caso specifico: il re di Francia. Costui accetta di sposare ugualmente Cordelia privata di ogni bene (a differenza di Borgogna che rifiuta). Probabilmente per due ragioni che collimano, in questo caso: affetto o amore verso Cordelia e ragione politica, in quanto un matrimonio con la figlia ripudiata e che è stata privata della sua parte di regno potrà forse essere in futuro una «ragione di stato» per intervenire negli affari del regno di Britannia. Si vedrà col tempo.

     

Il Fool

     

Il Fool che sparisce alla fine del terzo atto (cosiddetto), comunque al centro quasi della tragedia? Perché? Se c’è un perché. Ma il perché che si cerca non è logico ma poetico. Lear è al massimo della cecità. È solo con se stesso. Perché il Fool lo lascia per sempre? (per noi è «per sempre»).

Comunque l’ultimo gesto del Fool non è la sua battuta famosa «e io andrò a dormire a mezzogiorno» (cioè assolutamente fuori tempo). Indicazione di una morte prematura. Bradiev pensa addirittura che si sia ammalato per la pioggia e il freddo e che si senta male!

Il Fool esce «portando con Kent e Gloster» il corpo inerte del vecchio Lear. È questo corteo che segna la fine della sua parte. Ed è naturale che la didascalia non shakespeariana faccia parte della logica dell’azione fin dalla prima rappresentazione. Quindi è valida.

C’è poi la battuta di Kent, indiretta, per il Fool che «suggella» un rapporto di tenerezza tra lui e il vecchio. È un epitaffio comunque, per il ruolo, la figura.

Bisogna partire probabilmente dalla fine.

Resta sempre un punto interrogativo, tra tanti altri, da svelare.

Nei miei primi appunti c’è una indicazione del tutto intuitiva: Fool-Cordelia. Quando sparisce Cordelia appare il Fool, quando il Fool sparisce riappare Cordelia.

Ciò è evidente ma di per se stesso non giustifica una identificazione di Cordelia col Fool. Certamente crea una «premessa», come dire, di strano malessere, di coincidenza che «risulta» più scenica che letta. Non di più. Più tardi soccorre una citazione del Bradley, che presuppone che tale sparizione-apparizione duplice sia dovuta al fatto che al tempo di Shakespeare l’attore che impersonificava Cordelia recitasse anche la parte del Fool. Bisognerebbe controllare tale affermazione: su quali basi è nata, dai registi? (non credo); dalla tradizione? (non mi pare); da quale notizia allora?

Dall’altra parte Lear non è una tragedia così «piena» da richiedere doppioni in gran numero. Tuttavia una spiegazione relativa potrebbe essere il fatto che ragazzi adatti a recitare le parti di Cordelia, Regan e Goneril non dovevano essercene molti (le parti di giovani donne in Shakespeare sono sempre limitate, anche per questo evidentemente).

Tre ragazzi in tre parti femminili, dunque. Tutti sfruttati. Se, a questo punto, il testo richiedeva un «ragazzo» (boy) per il Fool poteva essere naturale doppiarlo o pensare ad una metodologia di palcoscenico per farlo. Qui nasce però il problema dell’età del Fool. Era necessario che il Fool del Lear fosse giovane (boy) Si potrebbe continuare con le congetture «di necessità» all’infinito.

Giova piuttosto esaminare altre congetture, poetiche, e controllare se esse possono avere un senso.

Qui si entra in un mondo oscuro, di sensazioni sfuggenti, di sensibili intuizioni che possono sfiorare l’immaginifico, l’elucubrazione intellettualistica e altro.

Una cosa mi pare però certa: c’è qualcosa di misterioso in questo legame, inesistente in apparenza, tra il Fool e Cordelia. Lo si sente e non si spiega. Persino il Bradley parla di un Fool che «ama Cordelia e che è rimasto a soffrire quando Cordelia è andata via». Il Fool è il Fool di Cordelia più che di Lear.

In un certo senso appare che il Fool è un «prolungamento» della presenza di Cordelia. Per Bradley, in termini naturalistici caratteriali, «il povero Fool che tanto amava Cordelia» (vedi battuta) è un «ragazzo» non del tutto pazzo, ma...

O il Fool fa sentire di più l’assenza di Cordelia? Infatti i suoi primi argomenti-lazzi-rimproveri sono gli stessi di Cordelia: il vecchio re sbaglia, è pazzo. Perché non prende la berretta del pazzo? Le due figlie sono diverse da quelle che crede (ecco la frase di Cordelia) e si riveleranno presto per quello che sono.

La verità però più segreta per me è questa: il Fool è la «persistenza» di un bene che è stato cacciato via.

     

Cordelia-Fool-Lear

     

C’è nel legame Fool-Lear una tenacia profonda ed inesprimibile di affetti, di complicità ed anche di «tenerezza» ad un certo punto. E poiché il «bene» – per noi – era quello di Cordelia cacciata, come per altro verso quello di Kent cacciato anch’esso, ecco che il Fool «tiene luogo» di questo bene in altro modo. È il bene rimasto, il rapporto «umano» rimasto e che rimarrà. Appunto la persistenza.

A questo scopo mi farei una domanda retorica ma illuminante: ammettiamo che il Fool non sparisca, misteriosamente, e che continui a stare vicino a Lear. Che lo segua anche nel «dopo».

Cosa avverrebbe, cosa potrebbe fare, quali sarebbero i rapporti suoi con Lear? Per quanto ci pensi non riesco a vedere dei rapporti praticamente possibili.

Prendiamo una scena: quella del risveglio di Lear con Cordelia e le seguenti. Potrebbe esserci il Fool, e se sì cosa dovrebbero fare o dire? Nessuno mai potrà tentare di inventare ciò che un poeta non ha fatto. Ma si può tentare di seguire una traccia plausibile di presenza. Non c’è posto per il Fool dopo la «pazzia» di Lear. E non erra chi dice che il Fool sparisce quando ha portato Lear alla pazzia. Il suo ruolo finisce lì. Non solo, però.

Il fatto è che il Fool serve a Lear «solo» in fase negativa del personaggio Lear, come commento alla sua negatività. Non può servire quando il personaggio Lear riemerge dal buio ed è nuovo, cioè opposto a quello che fu. In questo caso il Fool dovrebbe diventare l’opposto anche lui di quello che fu. Un Fool che «come prima» commenta e irride e parla e canta e spiega per enigmi e giochi non più «la follia» di Lear, l’errore di Lear, il disumano di Lear, ma il suo umano, la sua saggezza conquistata, il suo amore ritirato?

Impossibile. A un Lear nuovo, il Fool dovrebbe trasformarsi in un fatto nuovo, probabilmente tutto comprensione, dolcezza, tenerezza, affetto, trepidazione; (ciò che noi sentiamo che è «sotto» al Fool ma assume veste variopinta prima). E poiché ciò non è possibile o almeno non pare possibile ecco che il Fool deve sparire. Non c’è più bisogno di lui ma di un altro termine d’affetto e di presenza. Cioè Cordelia.

Lo so che tutto ciò – e lo dicevo – è sfuggente, è «sensibile» quasi, o peggio. Ma resta inoppugnabile il fatto che:

a) il Fool accompagna Lear nella sua disgrazia-follia-cammino di conoscenza e lo accompagna come «presenza», se non femminea, certo «non virile»;

b) che la presenza «virile» la dà Kent (anche se travestito: «chi sei tu?» – dice Lear – «A man» risponde Kent).

Il problema Fool-Cordelia è certo uno dei più enigmatici, pazzeschi problemi che mi sia stato dato di incontrare. Tanto strano da domandarsi se esso esista o non sia invece un parto di fantasia...

Mi viene di farmi un altro gioco del pensiero: poniamo che l’attore (boy) fosse lo stesso. Cosa poteva succedere nella rappresentazione shakespeariana? I doppioni non erano poi così comuni, né usati per parti «importanti» o per due parti importanti. Mi pare che la «convenzione» di questo genere non fosse una delle tante convenzioni in uso nel tempo. Come non lo è con i Comici dell’Arte.

Non ce n’è bisogno, del resto. Tutto è combinato e sufficiente per l’organico della compagnia.

Il pubblico doveva «riconoscere» nel Fool Cordelia e alla fine viceversa? Probabilmente riconosceva solo qualche cosa, alcuni timbri di voce, qualche caratteristica «inalienabile» e niente di più, tanto i personaggi sono lontani. Ma doveva forse riconoscere un «legame» misterioso, impalpabile.

     

La tempesta

     

La luce è immobile, da diluvio universale, chiarissima, lancinante, trafiggente. Come la luce di un lampo interminabile o arrestatosi nel momento della scintilla. Poi buio. Poi un altro, a lungo. Scandito nel vuoto, a intervalli. Nudo nella luce impietosa di un fulmine che non si spegne.

Il problema della tempesta è un problema acustico terrificante. O semplicissimo, trovata la chiave.

Il punto più difficile di ciò, è il risveglio di Lear. La musica che accompagna il risveglio di Lear. Due soluzioni iniziali. L’oboe elisabettiano, solo, che «risillaba» accanto a Lear (invisibile ma vicino e vero) un tema sommerso. O un suono di voci umane calme, piano, lontano; col pericolo che diventino metafisiche, o voci del sogno di Lear od altro.

Grande impressione per il «quarto atto» ma soprattutto in modo sconvolgente ed inaspettato per la scena del «risveglio» di Lear con Cordelia.

Dopo «la tempesta» di Lear, la follia degli uomini, la cattiveria, il sangue ed il dolore, appare una incredibile pace. Lear si risveglia, anzi sta risvegliandosi. Ed è qui che è avvenuto il «capovolgimento», qui la conquista della «verità» che è al di là delle cose.

Chi parla è ancora Lear ma al tempo stesso un altro: parla con acutezza e soprattutto con una infinita tristezza; lui che non ha mai conosciuto il distacco, la tristezza, la malinconica contemplazione della vita.

È un monologo lento, calmo, sereno, direi, da un «altro mondo».

L’effetto è stupendo, drammaticamente perfetto. È stato scelto il momento giusto perché avvenga. È «un colpo di scena» di una grandezza assoluta, perché semplice, perché logico, perché naturale, perché poetico, perché drammaturgico, perché...

Non ci sono problemi per la realizzazione. Semmai uno iniziale, quello della musica, dell’attesa. Ma anche questo meno, risolto il problema del «dove» e «come» stanno Lear e Cordelia, il «luogo» drammatico (è sdraiato Lear? Certamente, non può non esserlo. Ma: su un letto grande o altro? O per terra? Dovrebbe a mio avviso essere per terra, rinascere dalla terra come un «neonato vecchissimo». Se è «per terra», cosa ha sotto? Se ha sotto qualcosa, non è più «per terra»!).

Il resto è semplice, fino all’uscita di Lear che se ne va solo, nel vuoto. Ma non piange, non si dispera, sorride quasi e scuote un poco la testa in un «no» misterioso mentre esce e fissa per un attimo gli «altri».

Cordelia che aspetta il risveglio di Lear. La «carezza» sulla fronte per liberarla dai bianchi capelli, «il pallido elmo». Le parole di Cordelia sembrano dedicate ad un «altro uomo».

Cioè sono un «anticipo» di quello che Lear ci apparirà tra poco. Ma non lo sappiamo. Questo è genio. Si potrebbe pensare che, per Cordelia, Lear sia apparso un poco «sempre» così, vecchissimo e tenero. Forse Cordelia con l’occhio del cuore ha visto sempre la «bontà» di Lear, che è al di là della sua collera e del suo dispotismo.

     

Un uomo vecchissimo come un bambino

     

Sempre la scena del risveglio di Lear.

Una immagine lancinante: un uomo vecchissimo come un bambino appena nato da un sonno di morte, bianco e diafano, le mani raccolte, piccole unghie incredibilmente trasparenti, nel grembo di una giovanissima quietamente seduta, composta, che gli accarezza lenta i capelli, li scosta dalla fronte piena di crepe azzurre come vene sottilissime. Il gesto dolcissimo, il sorriso, la tenerezza, la pena, l’amore, la pietà per la vita che ritorna, che riaffiora. Il vecchio ha le ginocchia piegate, i pugni quasi stretti, e respira appena. Poi apre gli occhi e fissa quelli della giovane. Il vecchio è il padre. La giovane è la figlia. Il padre che rinasce alla vita (la più vera di sé) dalla figlia che l’ha «amato sempre». La figlia-madre, eternamente.

Il cerchio della vita e delle età che si chiude in un gesto. In un atto d’amore.

Alla fine, quando Lear porta dentro Cordelia, Cordelia è nelle sue braccia: l’idea di un fantoccio rotto, un fantoccino pallido, esangue, dal viso bianco bianco. Lear la porta proprio come un fantoccio, quasi facendogli trascinare le punte dei piedi per terra, tenendolo abbracciato, al petto, con fatica perché pesa, nonostante tutto. I piedini sfiorano il fango e qualche volta strisciano lasciando una riga più lunga.

L’avanzata è faticosa. Poi sul davanti (al centro? più avanti ancora? sulla passerella dopo aver tirato giù Cordelia-fantoccio morta?), la lascia andare a terra, scomposta, e la guarda in ginocchio, come un bambino antichissimo che guarda il suo giocattolo rotto. Con curiosità. Qui arriverà la battuta «my poor Fool is hanged».

Oppure durante le battute di Kent, Lear avrà incominciato a toccare il fantoccio-Cordelia, a darle piccole scosse, ritirandosi per vedere l’effetto del colpo, tirandola poi per le braccine, poi sollevando un braccino per il polso, in alto, piegandolo un poco e poi lasciandolo.

Il braccino ricade morto e resta. Lear allora, proprio alla battuta, in ginocchio, accucciato ha un lampo. La fissa, si allontana col busto, si riavvicina lentissimo con le palme a terra, fissando Cordelia faccia a faccia e mormora, adagio, con orrore tenerissimo, al di là del male: - «Ti hanno impiccato, povero Matto mio!».

E furiosamente se la stringe al cuore, mentre le braccine inerti dondolano nel ritmo di una straziante ninna nanna, perduta, immemore.

     

     


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