Bertolt Brecht al Piccolo Teatro


L' opera da tre soldi - 1972-73

autore: Bertolt Brecht
traduzione: Ettore Gaipa, Gino Negri, Giorgio Strehler
regia: Giorgio Strehler
scene: Ezio Frigerio
costumi: Ezio Frigerio
musiche: Kurt Weill
    


Appunti di regia dell'Opera da tre soldi del 1973 II edizione

Note di regia per la II edizione dell'Opera da tre soldi di Bertolt Brecht (la I edizione era stata nella stagione 1955-1956)

Appunti per la II edizione dell'Opera da tre soldi

Sarà più provocatoria questa nuova «Opera da tre soldi»    

     

Il punto centrale per una interpretazione de L’opera da tre soldi è il suo apparire gastronomico per essere antigastronomica; l’apparenza del divertente che diventa di continuo allarmante; l’evasione piacevole che diventa spiacevolezza e aggressione diretta. O indiretta.

 

Sui due versanti, rappresentare L’opera da tre soldi come un colorato sottomondo proletario, fantastico, inventato e anche aggressivamente innocuo, o come un inequivocabile, sinistro, violento fatto di violenza che dalla scena raggela il pubblico «borghese» in ascolto, sono ambedue errori di fondo. L’uno tenta di escludere l’altro, e ciò contro il testo, contro la sua volontà di essere in un dato modo che si potrebbe, entro questi limiti, definire ambiguo. Nei limiti, appunto, di una delle cinque maniere per scrivere la verità, quando non si può farlo. Ambiguo ma «volutamente» ambiguo, come scelta metodologica, non come incapacità o insufficienza ideologica. Perché L’opera da tre soldi rappresenta proprio questo «giocare» il sistema della società borghese, dall’interno, con alcune sue armi (dal pittoresco al patetico, dal generico rivoluzionari o alla canzone).

 

Nel riprendere in esame L’opera da tre soldi, di nuovo, si pone una problematica che va al di là del rifare il già fatto. Indubbiamente al tempo della sua prima edizione o della successiva (poco modificata) si era raggiunto questo equilibrio instabile che giustifica e determina il successo dello spettacolo nel pubblico per demistificarlo in ciò che ha di più gelosamente segreto: il suo perbenismo borghese. Il pubblico non borghese poteva, del resto, cogliere ugualmente il suo messaggio e divertirsi.

Poi e continuamente, a tratti, a lampi, a battute, a situazioni gestuali, veniva a contatto con la carica eversiva del testo-spettacolo, veniva colpito brutalmente e subito rimesso in una atmosfera piacevole.

 

Alcuni esempi: nel «Kanonen Song», Mackie Messer e il capo della polizia Brown la Tigre cantano ricordando i bei tempi passati in guerra. Bevono il solito «whiskaccio» e rammemorano tempi gloriosi, da buoni commilitoni. La canzone è piacevolmente ritmica, con qualcosa di eroico e brutale (le trombe all’unisono, il tamburo militare), ma jazzisticamente eccitante e melodicamente cantabile. In essa si parla di altri commilitoni Johnny e George e altri che «ai bei tempi» sono morti per la patria. Poi la patria e la sua guerra, contestualmente, si scoprono essere una guerra coloniale contro i negri, o razze di colore, delle quali piacevolmente gli allegri compagnoni facevano «beefsteak tartar» (cocktail nella traduzione italiana). La progressione della scoperta è perfetta, perfettamente dissimulata e perfettamente leggibile.

     

Canto dei ladri

     

Gli ascoltatori (membri della banda di Mackie Messer, cioè ladri e ladri diversi, il grosso, il magro, il giovane traviato, l’immigrato, lo sportivo, il ridicolo) e il cappellano Kimball, celebrante il matrimonio del re dei banditi, ma soave e dolcissimo, seguono divertiti il canto dei due amici. A poco a poco il ritmo della marcia, i suoni, le parole, l’allegra violenza dei due incominciano a coinvolgerli.

Alla fine, come attratti dal cerchio di luce che isola Mackie e Brown che gridano rievocando i loro massacri «piacevoli» da «commilitoni allegri» sui negri e razze annesse, attaccano anche loro a cantare l’ultimo ritornello, con gesti sempre più violenti e precisi, estraggono quasi automaticamente le «armi personali» (rasoio, catena, coltello e pistole) e le agitano verso l’alto. Persino il reverendo «piamente» dalla tasca ha tirato fuori la sua arma di difesa personale e l’adopera come gli altri. Sull’ultimo accordo sul quale riecheggia il ritmo di marcia dei piedi di tutti, le pistole sparano: fuoco e fumo dal gruppo per un attimo. Il proiettore bluastro si spegne di colpo. La musica tace. Il gruppo di colpo si scioglie «come uscendo da un sogno», le armi sono rimesse in tasca, riprende «il piacevole convito di nozze». Non è successo nulla. Soltanto un piccolo coretto di amici un poco alterati.

L’applauso qui scoppia ineluttabile. Ed è assai complesso. Esso è liberatore di una tensione fatta di motivi diversi: da quello puramente ritmico-animale (a livello più basso), a quello del malessere da esorcizzare e allontanare, da quello della «coscienza sociale» che ha analizzato gli stadi differenti di demistificazione della banda che canta e marcia, a quello della «bellezza piacevole» estetica, spettacolare, quella del «buon teatro» ad esempio.

L’intrecciarsi di motivi, sostanzialmente demistificatori, ma anche parzialmente mistificatori è fittissimo, e l’un motivo non preclude l’altro, anzi lo potenzia, lo veicola meglio e lo mette in dialettica con altri. Alla fine si potrà dire da un lato di avere visto e sentito un violento song sulla guerra, che finisce in un coro e in un crescendo drammatico superbamente realizzato, piacevole anche plasticamente (con alcune trovate, come quella del gruppo che si unisce per cantare in coro e marcia anche lui «come se fossero soldati»!). Un grande «momento di teatro». Dall’altro lato, di avere visto in atto il processo di demistificazione della mitologia della guerra, della alienazione dell’atto guerresco, del coinvolgersi ignobile degli altri nella folla guerresca, anche del reverendo, che diventa un sanguinario cappellano militare (magari a suo tempo, benedicente labari e torturatori).

     

Presentimento

     

Tra queste due percezioni estreme, la teatrale-gastronomica e la dialettica sociale, altre percezioni intermedie: ad esempio quella della società tedesca alle soglie del nazismo. Cioè il gruppo visto non come condizione borghese tout court ma come condizione di un «dato momento storico della società tedesca» nel 1928, presentimento della crudeltà nazista, e via di questo passo. Si potrebbe continuare. Ma ciò che interessa qui è notare la metodologia tipica che Brecht e Weill usano, e che qui è messa in una evidenza – non evidente – evidente.

Il discorso nasce per me dall’instabile rapporto di piacevole-spiacevole, accattivante-scostante, affettivo-aggressivo che è alla base della Opera da tre soldi. Ora, questo equilibrio instabile lo si può ottenere attraverso varie metodologie, tutte possibili nell’Opera da tre soldi (tutte cioè legittime, scartando le illegittime). Ma sostanzialmente i metodi sono due: o si parte dal piacevole, come base plastica, visiva, auditiva e si immette l’acido «continuamente» nel preparato, a volute, schizzi e altro. O si parte dallo spiacevole, dall’inquietante e lo si veicola con il «piacevole», l’accattivante, quasi il mistificatorio.

Nella prima edizione il metodo seguito fu il primo e diede buoni risultati.

Mi viene da chiedermi, ora, se la metodologia dovrà essere la stessa. Addirittura lo stesso spettacolo, anche se «rifatto» uguale (cioè diversissimo dieci o quattordici o sedici anni dopo!), oppure se è necessario invertire il rapporto e impostare lo spettacolo sul versante più crudo e spiacevole per piacevolizzarlo. Il risultato dovrebbe essere uguale ma l’accento di partenza opposto. Oscuramente sento una attrazione ineluttabile a questo processo. Ma perché? Perché c’è in me un bisogno «demoniaco» di fare diverso il già fatto? Il trovare o il provare un nuovo tipo di spettacolo sulle spoglie di quello antico perché già usato? Un nuovo bisogno figurativo? O altro? Tutti agguati, in fondo, anche se possibili e plausibili e artisticamente validi. Oppure tale attrazione o tendenzialità è il frutto di un contesto storico-sociale intorno a me, dentro di me (la storia e il tempo e il rapporto testo-tempo che mi spinge a trovare un «nuovo» modo o forma di colloquio con la collettività)?